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Nelle imprese con più di 15 dipendenti, la mancanza totale di motivazione nel licenziamento non costituisce una semplice violazione formale, ma un vizio radicale che determina l’illegittimità originaria dell’atto. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9544/2025, affermando che tale vizio ha una ricaduta sostanziale che impone l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata prevista dall’art. 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori.
Il caso ha riguardato un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 e licenziato nel 2017 senza alcuna motivazione contenuta nell’atto di recesso. In sede di reclamo, la Corte d’Appello di Firenze aveva applicato la sola tutela indennitaria ex art. 18, comma 6, ritenendo che si trattasse di un vizio meramente formale e qualificando il licenziamento come inefficace. Tuttavia, la Corte di legittimità ha rovesciato l’impostazione.
La Suprema Corte ha richiamato l’art. 2, comma 2, della legge 604/1966, che impone di esplicitare contestualmente i motivi del licenziamento per garantire il diritto di difesa del lavoratore. Quando la motivazione è assente o così generica da non permettere di comprendere il fatto alla base del recesso, non si tratta più di mera irregolarità, ma di impossibilità di identificare un fatto stesso.
La Cassazione ha evidenziato che, in tali casi, non può applicarsi la tutela indennitaria (art. 18, comma 6), prevista per vizi formali minori. Deve invece essere riconosciuta la reintegrazione attenuata (comma 4), riservata alle ipotesi di insussistenza del fatto. La logica è chiara: concedere una tutela più debole nel caso più grave — la totale assenza di un fatto giustificativo — genererebbe un’irragionevole disparità rispetto alle situazioni in cui un fatto è almeno addotto ma poi giudizialmente smentito.
La decisione si inserisce in un quadro di consolidata evoluzione giurisprudenziale che tende a marginalizzare la tutela meramente risarcitoria, valorizzando la reintegrazione come sanzione centrale. In particolare, la Corte si rifà anche a principi enunciati nelle sentenze della Corte Costituzionale n. 59/2021, n. 125/2022 e n. 128/2024, quest’ultima relativa al Jobs Act, per riaffermare la necessità di un sistema sanzionatorio ragionevole e proporzionato.
La Corte ha affermato un principio destinato a incidere profondamente nelle controversie future:
«Nel regime delle imprese con più di 15 dipendenti, la mancata o generica individuazione del fatto non integra una mera violazione formale ma, poiché impedisce che si possa pervenire alla stessa identificazione del fatto, ha una ricaduta sostanziale che determina l’illegittimità originaria del licenziamento, con applicazione della reintegra attenuata di cui all’art. 18, comma 4, L. 300/1970».
La sentenza n. 9544/2025 segna un ulteriore consolidamento della reintegrazione attenuata come rimedio principale contro i licenziamenti privi di motivazione concreta. Un segnale chiaro per le aziende: non basta licenziare, bisogna motivare con precisione. E per i lavoratori, una tutela più robusta che rafforza il diritto alla difesa e al giusto processo.